Le Olimpiadi di Rio de Janeiro, le trentunesime della storia, si sono appena concluse. Pochi i casi di doping accertati: fra questi l’atleta bulgara Danekova, la nuotatrice cinese Chen Xinyi e il sollevatore di pesi Zielinski, di nazionalità polacca. Davvero pochi i casi se si pensa che, fra i giochi di Pechino del 2008 e quelli di Londra del 2012, le analisi positive sugli atleti sono state 98. O, ancora, se si considera che nell’ultimo ventennio fra quegli atleti che hanno corso la gara regina dell’atletica, i cento metri piani, in meno di dieci secondi solo due (Bolt fra questi) non sono stati accusati di doping.
Perché questo divario? Cosa significa la scarsità di sostanze dopanti rilevata negli atleti a Rio? Che gli atleti olimpici sono diventati improvvisamente «virtuosi»? Qualche dubbio in proposito è legittimo sollevarlo se si pensa che la maggior parte dei casi di positività della enorme farmacia dello sport è sempre stata riscontrata mesi e anni dopo lo svolgimento delle gare. Si tratta di una tempistica che solleva qualche interrogativo.
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