Ai Giochi di Sydney del 2000, nella finale dei 400 m, una sprinter australiana ha portato in corsia (la sesta) il peso politico delle esclusioni razziali ed etniche e quello del nazionalismo.
Può una vittoria sportiva apportare un cambiamento al di fuori della pista d’atletica? Lo sport agonistico è un dovere sociale? Riesce a ergersi a paradigma di un intero popolo? Il fardello della storia grava sulle scarpe degli atleti, come aveva gravato su quelle di Jesse Owens nell’Olimpiade di Hitler. Talvolta conta di più il colore della pelle, talvolta pesano di più le discriminazioni di genere, e non c’è dittatura o democrazia che faccia la differenza, succede anche in situazioni di apertura mentale e libertà.
- continua su http://www.storiedisport.it/?p=3584
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