Chi sa fare fa, chi non sa fare insegna, chi non sa insegnare insegna educazione fisica (Woody Allen)

sabato 23 aprile 2016

Sport e immigrazione - Dossier di Africa e Mediterraneo n. 84/2016

Che lo sport sia uno dei fenomeni sociali più rilevanti nella società attuale è un dato ormai noto. La visione dello sport come passione popolare o chiacchiera quotidiana appartiene al passato: in realtà oggi si è affermato un immaginario sportivo coltivato dai media, vecchi e nuovi, che ha trasformato lo sport in bene di consumo, prodotto culturale, spettacolo, strumento di educazione, socializzazione e molto altro ancora. Non ultimo, lo sport costituisce una risorsa per l’integrazione sociale, laddove oggi esprime la natura multiculturale della società occidentale con tutte le sue contraddizioni.
In quest’ottica, una delle rappresentazioni più forti che lo sport - il calcio in particolare - è stato in grado di produrre è stata la vittoria della nazionale di calcio francese nella finale dei Mondiali FIFA nel 1998, quando la tutta la nazione si è riconosciuta nella “squadra delle tre B – black, blanc, beur”, composta da cittadini francesi di diversa origine etnica, frutto di una politica di integrazione sociale espressamente voluta dal presidente Jacques Chirac. Anche se – afferma Stefano Martelli (mentepolitica.it 21/11/2015) - a quasi 20 anni di distanza, l’attacco del commando terrorista alla città di Parigi nel novembre 2015 che ha colpito uno dei luoghi chiave di quel Mondiale - lo Stade de France – esprime il fallimento di quella politica.
Se il calcio quindi rappresenta un'esperienza rilevante per centinaia di milioni di persone (tifosi e/o praticanti) – un “fatto sociale totale” avrebbe detto Marcel Mauss – è necessario chiedersi perché il calcio italiano e quello europeo «hanno conosciuto un'escalation nella quantità e tipologia di atti di razzismo che hanno coinvolto tifosi, giocatori, manager e rappresentanti delle istituzioni calcistiche. Anche organizzazioni e istituzioni internazionali come l'Unione Europea, l'ONU e la World Bank sono intervenute ammonendo gli stati membri riguardo alla necessità di contrastare il fenomeno inserendolo nel più ampio quadro relativo alla diffusione di sentimenti razzisti nell'opinione pubblica e alla crescita di movimenti e partiti politici dichiaratamente xenofobi.» (R. Pedretti, 2015). Giocatori come Mario Balotelli, Angelo Ogbonna e Stefano Okaka rappresentano, grazie alla notorietà raggiunta, la punta visibile di un fenomeno molto più esteso e complesso che si muove con difficoltà in un mondo che ancora fatica a pensare in termini di integrazione e uguaglianza. Le campagne antidiscriminazione condotte da organizzazioni come FARE (Football Against Racism in Europe) o le manifestazioni come i Mondiali antirazzisti non sembrano scalfire l’indifferenza di classi dirigenti disattente (o minimizzanti) o di tifoserie accese.
Lo sport appare pertanto una pratica universale, seppur densa di contraddizioni: nonostante sia aperta a sportivi di qualunque origine, genere, posizione sociale, di fatto molti atleti in Europa sono vittime di ingiustizie, discriminazioni, o fatti di razzismo di vario genere. Ciò nonostante il 64% dei cittadini europei considera lo sport (anche di competizione) uno strumento per combattere ogni forma di discriminazione (W. Gasparini, 2012). I modelli narrativi e mediatici con cui si raccontano le storie di successo di atleti di origine straniera in Europa li rendono comunque un modello positivo, di grande impatto nelle società di origine come pure tra i giovani immigrati di seconda generazione. Oltre all’aspetto simbolico e di produzione di significati – e quindi di consenso – riguardante il livello dei campioni e delle star, la pratica sportiva costituisce un elemento di socialità e di aggregazione di cittadini di diverse fasce di età nelle comunità, nei quartieri, attorno a polisportive e associazioni (sia di ambito religioso sia laico), molte delle quali contano ormai decenni di vita. Si è sempre più consapevoli della necessità di inserire a pieno titolo lo sport nella cornice delle politiche sociali e di definire più precisamente quali modalità possano essere messe in campo per renderlo utile risorsa per l’integrazione dei cittadini di origine straniera e contro l’esclusione sociale. Le recenti esperienze di inserimento di richiedenti asilo nelle società sportive dei territori in cui sono accolti sembrano confermare queste potenzialità.
Pierre Bourdieu, definendo la cultura come esperienza che viene vissuta in maniera differente da pubblici distinti secondo le classi di appartenenza, insegna a considerare lo sport non solo uno svago, ma soprattutto una pratica sociale che – anche attraverso il dominio e la cultura del corpo – si svolge in forme e con effetti specifici che si riflettono sulla posizione sociale di chi lo pratica, che può in questo modo accumulare “capitale culturale” (Bourdieu 2007).
A partire da queste premesse il numero 84 di Africa e Mediterraneo intende discutere lo sport come strumento, pratica, risorsa socio-culturale capace di favorire l’integrazione sociale dei cittadini immigrati e dei richiedenti asilo nei paesi ospitanti, e di aumentare il “capitale culturale” e il “capitale sociale” fra gli immigrati e nel territorio stesso.
(fonte: http://www.storiasport-siss.it/attivita/call-for-papers/723-sport-e-immigrazione)

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