I prati nelle aiuole, eredi sabaudi di quelli antichi che danno il nome al quartiere, non sono né troppo alti né troppo bassi, non secchi ma neanche madidi; le palme si stagliano con un’attitudine più extraterrestre che esotica; la luce, quella dell’orario raffinato della stagione raffinata, quella che tormenta i residenti per la sempiterna maledizione di non poter essere turisti e vederla una sola volta per poi rimpiangerla tutta la vita, esalta il nitore latteo del tempio valdese, alieno pure quello per definizione; tutt’intorno la melodia inconfondibile di bambini che giocano fa venire voglia di essere padri, se proprio non si può più essere figli. Ammesso che sia vero (non lo è) il famoso adagio di Schopenhauer per cui la vita è un pendolo fra noia e dolore, questo quadretto, quando scendo le scale del Palazzaccio in cui lavoro, ha tutta l’aria di uno di quei brevi e fugaci attimi in cui l’angolo descritto dal pendolo è uguale a zero.
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