È diretta ad Atene, Stamáta. A piedi, ché i soldi per la carrozza proprio non ce l’ha. Pazienza, l’importante è lasciare quel villaggio che consuma la sua vita come una candela. Vuole – deve – trovare un lavoro a tutti i costi. Il figlio rimasto merita almeno una possibilità.
È ottimista, Stamáta. Un viaggiatore capitato qualche giorno prima in paese le ha detto che nella capitale stanno per inaugurare i primi giochi olimpici moderni. Che, a dire la verità, lei non sa nemmeno bene cosa siano. Sa, però, che arriverà un sacco di gente da tutto il paese e financo dal resto del mondo: trovare un impiego, uno qualsiasi, non dovrebbe essere impossibile.
È con questi pensieri che va incontro al suo destino, che si materializza sotto forma di un giovanotto contagiato – come tanti in quei giorni – dalla febbre olimpica. Il ragazzo sta correndo da solo, sognando allori e fama imperitura. E, tuttavia, appena incrocia quella signora vestita di stracci con in braccio un bambino si ferma immediatamente. L’allenamento può aspettare, così come i sogni di gloria. Quella donna e quel fagottino gli fanno tenerezza: vuole sapere ogni cosa di lei, la sua storia, i suoi sogni, le sue speranze. È anche generoso, l’aspirante atleta. Prima che riprenda la sua gara immaginaria mette infatti le mani al borsello e regala a Stamáta tutto quello che ha dentro. Non prima, però, di averle dato uno strano consiglio.
«Perché non corri la maratona olimpica?».
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