Chi sa fare fa, chi non sa fare insegna, chi non sa insegnare insegna educazione fisica (Woody Allen)

lunedì 19 gennaio 2015

Sergio Giuntini, «Sport e shoah»

«Sport e shoah» è il titolo del saggio di Sergio Giuntini, il quale racconta le storie di molti atleti uccisi dai Nazisti nei campi di sterminio.
Era appena il secolo scorso – a volte la memoria dimentica oltre che ingannare – in cui la libertà vissuta su un campo di gioco all’improvviso prese la forma e le misure del campo di torture e di lavoro, chiuso dal resto del mondo da un filo spinato. Il campo era un lager, nazifascista. E lì, tra i sei milioni di vittime dell’Olocausto, tra grida nel vergognoso silenzio, si consumò un ulteriore genocidio che non è mai stato indagato fino in fondo, quello dello sport. Una pagina nera, listata a lutto, che va sotto il nome di Sport e Shoah che ora è anche il titolo del saggio dello storico Sergio Giuntini, il quale parte subito da un dato inquietante e ai più sicuramente ignoto: «Si calcola che tra i sei milioni di vittime del nazifascismo, il martirologio sportivo abbia causato la morte di sessantamila atleti, di cui 220 di alto livello».
La statalizzazione dello sport nella Germania nazista seguiva il regime spartano, quindi prettamente difensivo e in netto antagonismo con la filosofia classica dell’olimpismo ateniese. Il popolo di Davide, accusato di scarsa attitudine alle attività fisiche, aveva solo in parte recepito la spinta di Max Nordau (alias Maximilian Sudfeld) che a Basilea, nel 1898 al congresso sionista dello sport semita, ammoniva la platea: «Noi dobbiamo aspirare a creare di nuovo una forza ebraica e l’efficienza fisica sembra una delle strade più importanti e feconde da intraprendere. Presso nessun popolo la ginnastica dovrebbe avere un ruolo preminente come tra gli ebrei perché un popolo che vuole liberarsi può aiutarsi solo da sé».
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